La cardiochirurgia mini-invasiva ha fatto enormi passi in avanti: offre soluzioni sempre più valide per la risoluzione di diverse patologie.
Cardiochirurgia: cosa è cambiato nel tempo?
La chirurgia cardiaca negli anni è cambiata completamente. Dalle storie dei miei maestri, in cui i cardiochirurghi venivano “sentiti” dalla gente come degli eroi capaci di affrontare le situazioni più incredibili, salvando la vita dei pazienti con manovre non di rado pericolose, siamo arrivati ai giorni nostri ad avere una chirurgia che (purtroppo) a volte viene quasi presa per scontata, con pretese di guarigione, non di cura.
Non esisteva la percezione della invasività, la stessa sternotomia (cioè il taglio verticale lungo lo sterno) era scontato, normale. Come sapete, invece, la cardiochirurgia sta transitando da un periodo caratterizzato da “grandi tagli” ad uno in cui predomina il “piccolo taglio”, con tutto ciò che questo comporta (strumenti chirurgici specifici, training degli operatori, fisiologica curva di apprendimento).
L’intervento in sé rimane inalterato: ciò che cambia è l’accesso chirurgico. Questa transizione, ormai a mio parere conclusa, è stata relativamente tardiva rispetto ad altri tipi di chirurgia, come quella addominale o quella ortopedica.
Perché la cardiochirurgia ha avuto un processo più lento?
- Innanzitutto per un problema relativo alla sicurezza delle manovre chirurgiche: intervenire su un organo in movimento attraverso un approccio mini-invasivo non è certamente semplice, gli spazi sono ridotti e la gestione delle potenziali complicanze rappresentano il punto critico fondamentale. Una complicanza inaspettata che si verifica durante un intervento eseguito con accesso mini invasivo, può diventare catastrofica. Ne deriva una conseguenza: se il tipo di accesso chirurgico diventa un ostacolo nella prevenzione e correzione di un potenziale “intoppo”, alcuni cardiochirurghi non saranno mai motivati ad adottarlo.
- La seconda ragione è la percezione da parte di alcuni cardiochirurghi della necessità di questo cambiamento. È vero: spesso cambiare non significa migliorare, soprattutto se consideriamo il forte impatto economico e la pressione che l’industria riserva a questa tematica. Ma è anche vero che i pazienti, le loro famiglie, i medici curanti ed i cardiologi sono attratti da procedure meno invasive, che richiedono durate minime di ospedalizzazione, garantendo i medesimi risultati (se affidate a mani esperte). È questo il vero tema: i cardiochirurghi devono evolvere, confrontarsi con queste richieste e trovare nuove modalità per garantire, con metodi meno invasivi, gli stessi eccellenti risultati assicurati dalle tecniche tradizionali.
Per arrivarci, bisogna conoscere le basi scientifiche a supporto, prepararsi tecnicamente, discutere con i massimi esperti, riadattare le tecniche chirurgiche tradizionali applicandole in contesti di accessi ridotti; simulare ogni possibile scenario, specialmente quello delle complicanze, per essere pronti ad affrontare qualsiasi evenienza.
Le modifiche tecniche, i miglioramenti e le complessive evoluzioni coinvolgeranno l’intera équipe (anestesisti, infermieri, personale di sala operatoria, perfusionisti) diventando, dopo un appropriato tempo di apprendimento, il nuovo standard.
È necessario infatti che l’approccio mini-invasivo diventi una procedura “standard”, una convinzione, una filosofia di vita ed un vero e proprio impegno personale, insomma: uno stato mentale.
Ogni paziente a mio parere deve essere sempre considerato come candidato per la chirurgia mini-invasiva: solamente nei casi controindicati, il tipo di accesso dovrà essere una sternotomia mediana longitudinale.